Eccoci qua, a celebrare un quarto di secolo senza il nostro artista ribelle, il maestro dell’anarchia melodica, con quella voce “stonata” che mai avrebbe vinto un talent: Lucio Battisti.
Il 9 settembre 1998 il nostro paese perse uno dei suoi giganti della musica
Ma chi se ne frega delle date e delle commemorazioni? La verità è che le canzoni di Battisti sono ancora qui, vive e impertinenti come non mai, a mordere le nostre orecchie e a farci desiderare un passato che non tornerà.
Lucio Battisti, figlio di Poggio Bustone, nacque il 5 marzo 1943. Lucio fu una vera e propria forza della natura nella scena musicale italiana, un visionario che scrisse le sue canzoni come se stesse dipingendo capolavori. E il New York Times, beh, arrivò a paragonarlo a Bob Dylan. Un’accoppiata audace, ma non senza senso, perché entrambi avevano un dono per definire il loro tempo, per piantare il loro stendardo nella terra della musica eterna.
Lucio Battisti non fu solo un cantante, era un alchimista musicale
Dalle influenze dei Beatles ai bagliori di Otis Redding, Ray Charles, Donovan e, naturalmente, il mitico Bob Dylan, il suo DNA musicale era un mosaico di genialità. Battisti ne rubava le sfumature e le trasformava in oro musicale. Scriveva canzoni e le vendeva ad altri, gente come Gene Pitney, gli Hollies e persino Paul Anka. Le sue canzoni erano diamanti grezzi pronti ad esplodere.
Il suo sodalizio con il paroliere Mogol è leggendario. Insieme crearono canzoni che sono ancora in circolazione oggi, in rotazione perpetua nelle radio del cuore e tra le corde di ogni chitarra acustica. Battisti era un esploratore, un musicista errante alla ricerca di nuove strade. La sua chitarra suonava come un esercito di musicisti, i suoi arrangiamenti erano paesaggi sonori da perdersi, e la sua voce, un po’ roca, era una sferzata di emozione pura, un’incredibile arma musicale che se ne infischiava di autotune e sbavature vocali.
Eppure, nonostante nel pieno della sua fama, Battisti decise di sparire
Nel 1970, smise di fare concerti. Perché? Perché voleva vivere, voleva mantenere la sua identità e non voleva diventare una merce esposta in vetrina. Non voleva che la sua faccia vendesse dischi, voleva che la sua musica facesse il lavoro sporco. Era un ribelle senza causa, un’anima selvaggia intrappolata in un corpo di musicista.
Negli anni ’80, si staccò da Mogol, non senza un pizzico di dramma artistico. Battisti sentiva la necessità di esplorare territori musicali ancora sconosciuti. Da li il sodalizio con Pasquale Panella. Crearono testi che sfidavano la logica e abbracciavano la spiritualità e la filosofia nichilista. Stesso discorso sul fronte musicale. Battisti si tuffò nell’elettronica, nella techno, persino nella new wave. Si rivelò un uomo che non aveva paura di sperimentare, di gettarsi in acque sconosciute.
Come scritto in precedenza, il New York Times lo paragonò a Bob Dylan, non per i contenuti politici delle sue canzoni, ma per il modo in cui le sue note hanno segnato un’epoca. Battisti era una tempesta di melodie e versi, un fulmine nella bottiglia della musica italiana.
A 25 anni dalla sua scomparsa, le canzoni di Lucio Battisti sono ancora con noi. Sono come fantasmi che si materializzano nelle feste, nelle chiacchiere notturne, e persino nei bar affollati dove la gente si ubriaca di nostalgia e di musica. Battisti è stato un pioniere, un visionario, un mago musicale. La sua musica è un’eredità indelebile, un ricordo vivo di un’epoca passata, un’icona ribelle della melodia. E noi, continueremo a canticchiare le sue canzoni, a tenerle sulle labbra, magari stonando un pò. Ma che c’importa?
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