Maggio 5, 2024
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Ho questo ricordo di mia madre pochi giorni prima della sua morte. Mi raccontava nuovamente, come se tutto non fosse già impresso nella mia carne, la storia di quando lei, da bambina, fu costretta a vedere mio nonno, suo padre, bere un bicchiere di olio di ricino. Le camicie nere, per l’ennesima volta, gli avevano “ricordato” che non risultava ancora iscritto al partito fascista. Bere olio di ricino ed essere umiliato davanti alla propria famiglia era il loro modo di consegnare un promemoria. Mia nonna Alba e mia madre Maria quella scena non l’avrebbero mai dimenticata. E neanche io, avendola vissuta sulla mia pelle, quell’umiliazione, attraverso i loro occhi. Mio nonno Giovanni non si piegò mai a iscriversi al partito fascista e io ho nel mio DNA l’antifascismo. In ogni sua forma, comprese quelle più subdole e nascoste. Per questo nel mio piccolo sento l’esigenza di spiegare cosa voglia dire per me, cosa vuol dire oggi, essere antifascista.

Cosa vuol dire essere antifascista potrebbe detto da me potrebbe suonare arrogante e presuntuoso ma sento di doverlo scrivere

Da diversi anni, assisto a una campagna di minimizzazione, se non addirittura di denigrazione, della Resistenza. Evidentemente diretta dall’alto, coltivata da cortigiani dalla schiena così curva da permettergli di vedersi il sedere da soli. Portata avanti da servi che definire “utili idioti” sarebbe far loro un complimento. Il loro gioco preferito è quello dei morti, l’uso dei morti: propongono di non definire più “festa” il 25 aprile perché, a loro dire, non si festeggiano i morti. Suggeriscono di sostituirla con una celebrazione che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrando insieme come eroi della patria sia Giacomo Matteotti, ucciso dai fascisti, che i gerarchi giustiziati dai partigiani; onorando insieme le vittime antifasciste e coloro che morirono con la camicia nera.

Essere antifascista, per me, è una necessità viscerale, una ribellione contro l’omologazione, contro l’imperante conformismo che cerca di annientare il diverso. Antifascismo significa avere il coraggio di schierarsi, di esporre la propria faccia al sole e non di vivere con lo sguardo abbassato, ignorando le ingiustizie che ci circondano. Schierarsi, anche a rischio di sbagliare, perché l’errore di chi lotta ha sempre più dignità del silenzio di chi si sottomette.

Oggi, questo schierarsi significa difendere i diritti che stanno tentando di strapparci via

Il diritto all’aborto, il diritto di decidere se e quando avere un figlio. Il diritto a una cittadinanza che non discrimini, il diritto a salari che non siano elemosina, il diritto di amare liberamente, di vivere senza etichette in un mondo ancora respingente di fronte alla diversità. È combattere per il diritto di quei bambini nati sul nostro suolo, ai quali viene negata la cittadinanza italiana solo per il colore della loro pelle. Un razzismo sottile ma devastante che separa i nati “di qua” da quelli “di là” basandosi su un criterio tanto arbitrario quanto crudele.

È schierarsi dalla parte di quelle coppie omosessuali che ancora oggi devono nascondere il loro amore per paura delle conseguenze, per la mancanza di protezione legale che altri danno per scontata. Essere antifascista è difendere il diritto di tutti gli individui, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, di vivere una vita di aperta felicità.

È anche lottare per chi desidera avere un figlio e si trova ostacolato dalle barriere imposte da una visione obsoleta di “famiglia tradizionale”. Una visione che esclude e denigra, che definisce il diritto di procreare come appannaggio esclusivo di certe configurazioni familiari, ignorando l’amore e la legittimità di altre forme familiari altrettanto valide.

Antifascismo significa, dunque, rifiutare ogni forma di discriminazione e oppressione. Battersi per un’uguaglianza che non sia solo dichiarata ma realmente praticata, per una società dove nessuno sia costretto a nascondere chi è o chi ama, e dove ogni bambino cresciuto qui possa chiamare questa terra “casa” con pieno diritto.

L’antifascismo, nella sua essenza più pura e radicale, è la difesa intransigente della libertà di parola e di pensiero. Specialmente quando questa si manifesta nei contesti più ostili

Difendere un scrittore ebreo che viene ostracizzato in una università italiana, chiamare hamas per quello che sono: terroristi e allo stesso tempo poter criticare ferocemente certe politiche scellerate dell’attuale governo israeliano. È l’espressione di un antifascismo che non accetta censure. Che lotta contro ogni tentativo di silenziare le voci scomode, anche quando queste voci si levano contro ingiustizie perpetrate da stati che si proclamano democratici.

L’antifascismo che predico e pratico è un’azione continua contro ogni forma di esclusione e repressione. Un richiamo a non dimenticare che la lotta per la giustizia e la libertà non conosce sosta né confine, e che ogni atto di soppressione di una voce libera è un atto contro tutti noi.

Giovanni Scafoglio

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