Di recente ho analizzato il fenomeno del Quiet Quitting, inteso come un comportamento di ribellione contro lo stacanovismo. Il quiet quitter, in breve, se non motivato dall’azienda per cui lavora, è disposto all’abbandono silenzioso. Un abbandono che si può tramutare in un lavoro disimpegnato o nel comunicare le dimissioni. Ma allora, come può un’organizzazione contrastare il malessere di un collaboratore? Albert O. Hirschman può aiutarci a comprendere meglio le relazioni umane all’interno delle imprese attraverso il saggio Exit, Voice, and Loyalty. Uscita, voce e lealtà: quale strada scegliere?
L’economista parte dall’assunto che tutte le organizzazioni (economiche, politiche, sociali) sono soggette a crisi.
Le conseguenze di una crisi organizzativa possono essere tre: uscita, voce e lealtà. Tre linee di comportamento che si sono estese al campo delle Risorse Umane. Il saggio di Hirschmann risale infatti al 1970, ma continua ad essere attuale. La sua teoria aiuta a sintonizzarci sulla stessa lunghezza d’onda dei colleghi di lavoro, valutandone empaticamente la propensione alla continuazione della collaborazione o alla sua interruzione. É un saggio che consente di riflettere circa le motivazioni che conducono il singolo a fare determinate scelte.
Analizziamo meglio le tre reazioni che possono scaturire da una condizione di insoddisfazione da parte del lavoratore.
Uscita.
L’uscita è l’abbandono dell’organizzazione per cui si svolge una professione. Una reazione dunque forte e che pone i manager e i dirigenti in uno stato di allerta. “Perché il collaboratore ha scelto di andare via?”, “Cosa è sfuggito agli occhi dell’HR?”, “Quali errori ha commesso l’azienda per condurre la persona all’uscita dall’azienda?”, “Ci sono stati “segnali” di uscita che sono stati ignorati?”.
Ecco, questi sono alcuni interrogativi che rappresentano una messa in discussione dell’organizzazione stessa. Motivo per cui, l’uscita è un comportamento efficace nella misura in cui permette all’impresa di interrogarsi sugli errori commessi. Nello specifico, il team HR è chiamato a riflettere sulle cause che hanno spinto il singolo a lasciare l’impresa. L’auto-analisi deve permettere di individuare le zone grigie del contesto lavorativo.
Così facendo si possono attenuare gli effetti negativi della relazione tra azienda e lavoratore. Ed evitare quindi una reazione come l’uscita.
Voce.
La voce costituisce un tentativo di dialogo con i vertici dell’organizzazione. Uno strumento di protesta utilizzato per far luce su una condizione di distress emotivo. Ovvero, nel momento in cui, il collaboratore non è emotivamente coinvolto dalle attività che svolge e dal luogo di lavoro, sceglie di contestare. Un approccio dunque che presuppone la volontà di trovare un punto di incontro con l’azienda. C’è sì la protesta, ma l’intento è quello di non erodere del tutto la relazione con l’organizzazione.
“La voce è la manifestazione di un disagio o di una richiesta, di un miglioramento delle condizioni e delle abitudini lavorative o del compenso. Ignorare la voce, in modo prolungato e ripetutamente, porterà prima o poi all’uscita. In quanto, nel nuovo paradigma, ancora in via di configurazione definitiva, soprattutto per le nuove generazioni (Millennials e Centennials) e nei settori economici in rapida crescita non esiste il lavoro come unica ragione di vita. Pertanto la possibilità dell’uscita è costantemente sul piatto delle scelte operabili”.
Queste le parole di un mio collega – Fausto Iannuzzi – con il quale ci siamo ritrovati a discutere di Quiet quitting e di Exit, Voice, and Loyalty.
La voce, quindi, se non ascoltata può tradursi in uscita dall’azienda. Attraverso il confronto, il collaboratore vuol cercare di rinsaldare un rapporto di fiducia. Questo tentativo è anche figlio di un mondo lavorativo in continuo divenire. Come scrive Fausto, il lavoro non è più concepito come unica ragione di vita. A maggior ragione, le persone non sono più disposte a mettere in crisi il proprio benessere psicologico.
Anzi, nel momento in cui avvertono segnali negativi provano a farlo presente. Infatti, i lavoratori delle moderne organizzazioni chiedono una negoziazione continua dei propri progetti, dei propri desideri e della propria identità professionale. Se l’impresa non è in grado di rendere felice il collaboratore, né di rinnovare il rapporto di fedeltà, dovrà perciò aspettarsi reazioni di dissenso.
Lealtà.
Uscita, voce e lealtà: quale strada scegliere? La lealtà assume un ruolo cruciale. Nel senso che, la scelta tra l’uscita e la voce dipende dal grado di attaccamento all’azienda. Maggiore è il grado di fedeltà tra azienda e lavoratore, maggiore è la possibilità di protesta. Viceversa, minore è il livello di lealtà e maggiore è la possibilità di uscita. In tal senso, la funzione dell’HR è essenziale nello stabilire una relazione di fiducia in grado arginare casi di burnout e malessere.
Più il legame azienda-collaboratore è attenzionato, più si riduce il turnover. Affinché questo accada occorre puntare sull’ascolto delle persone, intercettare bisogni e malcontenti. Serve promuovere il coinvolgimento del personale attraverso iniziative di socializzazione. E ancora, bisogna permettere al singolo di esprimere il suo potenziale. Perché se le persone non si sentono gratificate non sono disposte ad offrire la propria prestazione lavorativa.
Concludiamo con una provocazione: per concentrare – e non disperdere – le competenze di ciascuno, bisognerebbe evitare l’incessante applicazione del principio di Peter (“In una gerarchia, ogni dipendente tende a fare carriera fino al proprio livello di incompetenza”) ? Cioè, l’insorgere dei malcontenti è forse da attribuire a persone incapaci di valorizzare il lavoratore? Oppure, gli scenari organizzativi sono così mutevoli da non riuscire a stare al passo con le nuove tendenze?
Emanuela Mostrato