Il politically correct: quando l’inclusione diventa esclusione e la Disney, di colpo, scopre che cultura woke, bigottismo e politicamente corretto non pagano.
Benvenuti nel mondo incantato di Disney, dove il troppo woke stroppia e il botteghino piange. Bob Iger, l’illustre CEO 72enne di questa, apparente, realtà fiabesca, a fare i conti con la dura realtà: l’intrattenimento è stato sacrificato sull’altare del politicamente corretto. “Siamo diventati troppo sermoni e poco spettacolo”, ha dichiarato durante un evento del New York Times.
La Disney, che un tempo si dilettava nell’arte di raccontare storie, sembra ora più interessata a fare da paladina di cause sociali
“The Marvels” ne è un esempio lampante: una narrazione sacrificata per obiettivi sociali, con un botteghino che non perdona, mostrando più crisi di identità di un adolescente. E già l’ultimo episodio della saga di Thor si era rivelato un boomerang grottesco.
Ma non finisce qui. Il remake de “La Sirenetta” con Halle Bailey e l’animazione “Wish” sono le ultime vittime di questa saga. Come evidenzia un botteghino più anemico di una vittima di dracula, questi titoli non hanno raggiunto il successo sperato, a differenza dei loro predecessori. È come se Disney avesse preso il classico libro delle fiabe e l’avesse riscritto in linguaggio politicamente corretto, perdendo per strada un bel po’ di magia.
Poi c’è la guerra culturale con Ron DeSantis, un intrigo degno di un thriller politico
Disney contro il governatore della Florida, in una battaglia sui temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nelle scuole. Un conflitto che ha visto Disney perdere alcuni privilegi storici a Orlando e finire in tribunale in un’accesa disputa.
Ma torniamo a Iger e alla sua epifania. “Dobbiamo scegliere tra intrattenimento e messaggio?” si chiede il CEO. Una domanda retorica, ma che mette il dito nella piaga. Secondo Giorgio Grignaffini, direttore editoriale di Taodue Film, il problema sta nel bilanciamento: “Quando il politicamente corretto domina, la creatività soffre. Il racconto perde autenticità”. E il pubblico, da spettatore fedele, diventa critico intransigente. Ma attenzione, la domanda in se è pericolosa poiché le fiabe e soprattutto le favole, da millenni contengono messaggi e morale finale, il punto è quale morale e quali messaggi portare avanti oggi e come?
Iger ammette che non è solo colpa della cultura woke
La pandemia ha cambiato le abitudini: i genitori non portano più i figli al cinema come una volta. La Disney ora punta a ridurre le produzioni, focalizzandosi sulla qualità piuttosto che sulla quantità. “Non è solo questione di politicamente corretto”, afferma Grignaffini. “Ci sono molteplici fattori in gioco”.
E poi c’è la questione finanziaria. La Disney ha respinto le richieste dell’investitore Nelson Peltz e sta cercando di tagliare i costi. Con un valore di borsa dimezzato rispetto a due anni fa, il futuro appare incerto. Iger annuncia risparmi, ma è abbastanza?
Perdendosi nelle nebbie del politicamente corretto, la Disney ha intrapreso un viaggio che sembra più un labirinto di specchi deformanti
Ogni nuova produzione diventa un campo minato, dove ogni passo potrebbe essere l’ultimo prima dell’esplosione di un’altra polemica. Ecco che arriva “Biancaneve” versione 2025: addio nani, benvenuti esseri fatati. E la principessa? Non sogna più il principe, ma aspira a diventare leader. Una rivoluzione narrativa, certo, ma che rischia di trasformare un classico in un manifesto ideologico.
Il CEO di Disney, Iger, in questa saga si trasforma quasi in un personaggio shakespeariano, combattuto tra il dovere di mantenere viva l’eredità di un impero dell’intrattenimento e la pressione di navigare le acque burrascose di una società in rapido cambiamento. “Dobbiamo trovare un nuovo equilibrio”, sembra sussurrare tra le righe delle sue dichiarazioni. Ma come? E soprattutto, a quale costo?
La risposta potrebbe trovarsi nella trasformazione delle storie stesse. Se un tempo i film Disney erano evasione pura, oggi sembrano lezioni camuffate di morale sociale. Non più solo intrattenimento, ma anche veicoli di messaggi, a volte sottili, altre volte tanto delicati quanto un elefante in una cristalleria.
Nel frattempo, il mondo finanziario osserva con occhio critico. Gli investitori, come Nelson Peltz, mettono sotto pressione l’azienda, chiedendo un cambiamento radicale nella gestione e nelle strategie. E il valore di mercato di Disney? Un tempo inarrivabile, ora sembra vacillare sotto il peso di scelte discutibili e di un futuro incerto.
E mentre i fan di vecchia data si interrogano su cosa sia rimasto del magico regno che una volta conoscevano, i nuovi spettatori si trovano divisi tra l’apprezzamento per una maggiore inclusività e la nostalgia di un intrattenimento più semplice e meno carico di implicazioni sociali. La domanda che tutti si pongono è: Disney riuscirà a ritrovare la strada di casa o continuerà a vagare in questa foresta di modernità, perdendo sempre di più il contatto con la sua anima originale?
La risposta non è semplice, e forse non esiste una soluzione unica
E così, ci troviamo a osservare la Disney, un tempo bastione dell’immaginazione infantile, ora trasformata in un’aula universitaria di studi culturali. “Il mondo dello spettacolo è in costante evoluzione”, ci dicono. E certo, evoluzione… Ma verso cosa? Un futuro dove ogni principessa ha un manifesto politico tascabile e ogni principe, di solito un idiota, è troppo occupato a riflettere sul suo privilegio per salvare chiunque?
Ah, la Disney! Quel crocevia di scelte cruciali per il futuro dell’industria dell’intrattenimento. Riuscirà a ritrovare la strada per la Terra Incantata o continuerà a perdersi nel bosco del politicamente corretto? Chissà, forse il prossimo grande successo sarà “La Bella Addormentata nel Bosco della Diversità”.
Forse dovremmo tutti iscriverci a un corso accelerato di apprezzamento woke, così la prossima volta potremo applaudire con più convinzione. O forse no!
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