Aprile 26, 2024
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La conoscenza va condivisa oppure no? Purtroppo, c’è ancora chi crede che trasmettere ciò che si sa a qualcun altro, possa essere uno svantaggio per se stessi. Bisognerebbe sdoganare l’idea secondo cui le proprie competenze debbano restare tacite per non consentire all’altro di imparare. Che sia all’interno di un contesto scolastico o lavorativo, la condivisione della conoscenza non può che contribuire alla crescita personale e collettiva. Il Knowledge Sharing è la condizione essenziale per la costruzione del capitale culturale.

Perché è un vantaggio condividere le competenze? 

Condividere le competenze rappresenta un vantaggio innanzitutto perché il piacere di imparare sta nel condividere quanto appreso. In questo modo, saremo gratificati dall’aver trasmesso all’Altro informazioni utili. Un altro vantaggio risiede nella valorizzazione delle proprie competenze. Soprattutto se si opera in ambito aziendale, è bene agire al fine di rendere il lavoro di tutti sempre più professionale ed efficiente. Cosa che invece non può avvenire se si agisce in modo egoistico. 

Far parte di un’organizzazione significa contribuire all’accrescimento del capitale culturale. Di conseguenza, se le competenze di un’azienda accrescono, aumentano le opportunità di successo sia di gruppo che individuali.  Lo svantaggio, infatti, sarebbe quello di lavorare in un’impresa in cui ognuno svolge il proprio ruolo, senza arricchirsi del dialogo con gli altri. Il vantaggio, invece, è quello di poter operare in un’azienda in cui la cultura della condivisione rappresenta un valore cardine.

Un’azienda che incarna questo valore, è sicuramente una realtà che affida il proprio sviluppo al capitale umano. Dunque, alle competenze dei singoli collaboratori. Questo significa attribuire a tutti il ruolo di “soggetti attivi” in grado cioè generare cambiamenti e innovazione. Vuol dire dare a tutti la possibilità di crescere e di esprimere le proprie idee, indipendentemente dalla posizione in organigramma.

Insomma, se la conoscenza è condivisa, vuol dire che tutti possono apprendere da qualcuno. Non c’è gerarchia che tenga, perché quel che conta è che ogni persona possa essere competente. 

Ma da cosa dipende la presenza o la non presenza del Knowledge sharing?

La presenza o la non presenza del Knowledge sharing, dipende senz’altro dal sistema culturale di una persona. Tendenzialmente, la nostra cultura occidenale è individualistica. Tendiamo ad anteporre l’Io al Noi, l’Ego alla collettività. E questo è un aspetto che inibisce la condivisione della conoscenza. In molti pensano:”Perché mai dovrei insegnare qualcosa a qualcun altro? E se poi diventa più bravo di me? E se mi ruba il mestiere?”.

Ma che ben venga se qualcuno ci ruba il mestiere, vuol dire che lo facciamo bene e che contribuiamo alla “conoscenza tacita”. Quest’ultima è stata elaborata da Michael Polanyi, ed è intesa come l’insieme di informazioni acquisite durante il lavoro sul campo. SI contrappone, infatti, alla conoscenza esplicita che fa riferimento all’insieme dei saperi teorici che possono essere facilmente divulgati. 

Tuttavia, se si fa ancora fatica a cogliere il valore del Knowledge sharing è perché nei Paesi europei manca la cultura della condivisione. Harry C. Triandis – pioniere della psicologia interculturale – ha rilevato da una ricerca internazionale le differenze tra società individualiste e collettiviste. Nelle prime, gli obiettivi del singolo prevalgono su quelli del gruppo. In queste società, le persone tendono ad essere autoreferenziali (“Io sono”). Mentre, le seconde, si contraddistinguono per uno spiccato senso di appartenenza.

In India, in Giappone, le persone si descrivono facendo sempre riferimento agli altri. In questi paesi, i rapporti di interdipendenza sono un imperativo. E quindi anche la base su cui mietere successi. 

Non condividere la conoscenza equivale a non averla

A partire da queste differenze, la nostra società dovrebbe meglio comprendere i limiti dell’agire a discapito delle idee degli altri. Ma anche a discapito di se stessi. Perché avere conoscenza e non condividerla equivale a non averla. Il fine di una “comunità di pratica” (elaborata da Étienne Wenger) è migliorare attraverso la condivisione dell’intelligenza. In queste comunità è bandita la competizione a favore di un agire collettivo.  

Purtroppo però, nei contesti scolastici e lavorativi prevalgono ancora troppo gli atteggiamenti competitivi. Il knowledge sharing è visto in alcuni casi come una minaccia per la propria crescita. Motivo per cui, sarebbe necessario che sia nelle scuole che nelle aziende si promuovesse la cultura della condivisione. 

“Solo quando il lavoro nasce e si sviluppa in modo relazionale (relazione d’amore con se stessi, le cose e le persone), può essere riposo, quando invece è vissuto individualisticamente, cioè solo come obbligo o autoaffermazione, inevitabilmente esaurisce” (Alessandro D’Avenia). 

La condivisione della conoscenza deve essere intesa come un modus operandi per allontanare lo stress dalla propria vita. E quindi per migliorare il proprio lavoro e quello altrui. Come un modo di apprendere che ci fortifica non solo come professionisti, ma anche e soprattutto come persone

Emanuela Mostrato

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