Ottobre 10, 2024
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Il caso tik-tok che ha visto Osimhen vittima di un brutto episodio di malcelato razzismo, ha posto l’attenzione su quanto Napoli sia razzista. E se fosse cancel culture?

Forse il termine cancel culture è un po’ azzardato, ma se vogliamo estendere il concetto , credo che si adatti alla situazione. Da napoletana potrei facilmente cedere a sentimenti di troppo amore o troppo rancore nei confronti della mia città, quindi cercherò di essere quantomeno obiettiva, anche se è difficile. Ma non tanto per una questione affettiva, quanto perché sono convinta che essere napoletani porta una certa dose di ambivalenza di base. Che potrebbe essere la nostra forza, ma la maggior parte delle volte si rivela la nostra più grande debolezza.

È senza dubbio razzismo quello che ha subito Osimhen, e il fatto che il video su tik tok l’ha postato la squadra per la quale lui gioca, fa accapponare la pelle. Ciò che più ha fatto riflettere se Napoli sia razzista, è la reazione dei tifosi partenopei. In molti infatti, così come la stampa Italiana in generale, hanno minimizzato l’accaduto, qualcuno ha detto che forse la reazione di osimhen è dovuta ad un dispetto nei confronti della dirigenza della squadra, colpevole di non voler concedere al giocatore Nigeriano dei vantaggi contrattuali.

Dopo la pubblicazione del video infatti, Osimhen ha tolto il like alla pagina del calcio Napoli e ha snobbato i compagni durante il ritiro. I tifosi si sono schierati in due fazioni: Chi da totalmente ragione ad Osimhen, e chi invece sostiene che abbia esagerato. Alla successiva partita Napoli-Udinese, il gol di Victor “scioglie o sangue dint e ven” e  sembra pace fatta.

Ma la domanda resta, Napoli é una città razzista?

Se restiamo alla superficie, la risposta è no. Napoli ha dimostrato spesso di essere una città cosmopolita e accogliente, nella quale nessuno si sente davvero estraneo. Questa è l’impressione comune di qualunque turista, quindi di “facciata” Napoli fa bene il suo lavoro. Ovviamente qualunque città per essere davvero capita va vissuta, e sono sincera nel dire che forse vivendo a Napoli dalla nascita, neanche io sono la persona adatta a stabilire quanto la mia città sia razzista o meno, perché nessuno è profeta in patria. La parola dovrebbe essere lasciata a chi ci non è nato a Napoli e ci si è trasferito da qualche anno, per avere un parere scevro da qualunque sentimentalismo. Posso limitarmi a portare la mia testimonianza e qualche riflessione.

La Napoli che conosco io e che mi è stata raccontata e tramandata dai mie nonni e genitori, è una città fatta di persone abituate da secoli a confrontarsi col “diverso”,  e magari per abitudine o per una sovrannaturale indole all’empatia, non si è mai fatta troppi problemi se quella persona ha una pelle o un accento diverso dal tuo, o se ama una persona del suo stesso sesso. Ho vissuto da piccola la Napoli che chiama tutti i ragazzi di colore Gennaro o Ciro, perché i nomi sono impronunciabili, ma non lo fa per discriminarli, bensì per appartenenza.

La Napoli che ho ascoltato nelle canzoni di Pino Daniele è quella che dice “chill è nu buon guaglion e vo esser na signor”, immaginando un mondo nel quale se un ragazzo vuole gridare al mondo di sentirsi una donna, può farlo senza che nessuno lo denunci.

La figliata dei femminielli

Nei racconti di mia madre, nata e cresciuta ai quartieri spagnoli, esiste questo evento a metà tra il pagano e il mistico: la figliata dei femminielli. Ad un bambino nato in una famiglia in difficoltà economica, si assegna una madre putativa, che spesso è un omosessuale di buona famiglia. Per rendere più “legittima” l’affiliazione del bambino, si mette in scena una processione, nella quale il femminiello, con tanto di pancione fittizio, attraversa il quartiere, arriva in casa della famiglia del neonato, si distende sul letto,e inscenando un parto, “mette al mondo” quello che sarà il suo figlioccio. Questa rappresentazione, che potrebbe anche essere bollata come grottesca, fa vedere come in un certo senso a Napoli, ben prima che si parlasse di utero in affitto e coppie dello stesso sesso, ci sia da sempre una tolleranza circa la propria identità di genere.

Napoli razzista, e se fosse cancel culture?

Certo poi crescendo mi sono scontrata molto spesso con l’altra faccia della medaglia. Napoli non è Neverlad, anzi per citare Goethe “è un paradiso abitato da diavoli” e lo vivo ogni giorno sulla mia pelle. Il problema secondo me è una sorta di cancel culture che abbiamo messo in atto da trent’anni a questa parte. Essere napoletani comporta una responsabilità civile e culturale molto difficile da prendere in carico, soprattutto perché sei solo in questa battaglia. Non è facile fare da ago della bilancia tra la cultura della tua città e ciò che è il mondo reale al di fuori di essa. Come diceva Eduardo De Filippo in Napoli milionaria “qualunque cosa di straordinariamente eccessivo (in negativo) dicono che è successa a Napoli”.

Napoli sembra quasi il metro con il quale si giudica l’andamento del nostro paese, ed è come se noi partenopei fossimo investiti di una responsabilità che va oltre le nostre capacità. Proprio noi napoletani siamo vittime di razzismo molto spesso. E da qualche decennio preferiamo reagire con una rinnegazione di quello che siamo e che magari la nostra famiglia ha cercato di tramandarci. Invece di capire che proprio il fatto che siamo napoletani può fare la differenza in positivo, quasi ce ne vergogniamo, e preferiamo omologarci ad un pensiero che ci porta ad un distacco emotivo pericoloso, perché crea delle crepe nelle quali si insinua molto facilmente l’indifferenza, l’aridità e il razzismo.

Paola Aufiero.

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