Maggio 1, 2024
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In quel momento, quando il velo della realtà sembrava strapparsi sotto il peso di una rivelazione tanto tragica, un’intera generazione sentì il terreno cedere sotto i piedi. Trent’anni fa, la notizia della morte di Kurt Cobain si diffuse come un incendio nella notte, lasciando dietro di sé solo cenere e domande senza risposta. Per quelli di noi appartenenti alla Generazione X, Kurt non era solo un’icona o un musicista straordinario; era un fratello d’armi, il nostro poeta maledetto, il traghettatore che aveva saputo portarci in salvo da quell’inferno di batterie elettroniche e band rock fonate degli anni ’80 fino al riscatto di un sound crudo, sincero, spoglio delle artifici. La sua voce era il nostro grido, la sua disperazione, la nostra disperazione.

Con jeans logori, camice da boscaiolo e capelli spettinati, simbolo di un rifiuto a conformarsi, suonava la sua Fender sfidando la sua timidezza. Kurt incarnava il sogno di un’esistenza autentica, lontana dai cliché che avevano marcato l’era precedente, eppure si portava dentro un tormento insondabile, un abisso che nemmeno la musica, per molti vera ancora di salvezza, riusciva a colmare. La sua scomparsa sollevò un velo oscuro sul perché alcune anime decidono di lasciare questo mondo suicidandosi, un mistero che rimane insondabile nonostante gli sforzi di chi cerca risposte nella scienza, nella fede, o nella meditazione.

Il vuoto lasciato da Kurt Cobain non si è mai realmente colmato, e il senso di perdita, di mancato compimento, pesa ancora sul cuore di chi lo ha amato, di chi attraverso le sue parole e la sua musica ha trovato conforto o una strada. La tristezza e l’angoscia di quel momento sono lividi che non si estinguono mai del tutto.

Oggi, nel ricordo di Kurt, molti scelgono di celebrare l’icona, l’angelo biondo dal volto innocente, trasformando la sua immagine in un simbolo quasi mitologico. Parlando più di se stessi che di lui. Come accade praticamente sempre in queste commemorazioni. Ma forse, il modo migliore per onorare la sua memoria non è attraverso la santificazione o la mitizzazione, ma riscoprendo la sincerità cruda delle sue parole, la passione per la musica che lo ha consumato fino all’ultimo. Forse dovremmo semplicemente prendere una chitarra, alzare il volume dell’amplificatore fino a far tremare le pareti, e lasciare che la nostra voce si unisca alla sua, nessun inno di ribellione, nessuna speranza, solo un atto potente da donare agli dei della musica. O forse, semplicemente, in quel suono, forse, potremmo trovare un ponte che ci colleghi ancora a lui, un ricordo che, nonostante il dolore, ci faccia sentire un po’ meno la mancanza di quel fratello maggiore in rock.

Giovanni Scafoglio

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