A due mesi dall’inizio del conflitto in Medio Oriente, c’è spazio (purtroppo) anche per il rainbow-washing.
Tra i vari episodi che hanno scatenato pareri e i polemiche dall’inizio del conflitto israeliano-palestinese, c’è la foto di un soldato israeliano che sventola una bandiera arcobaleno con le parole “in nome dell’amore”. Il movimento LGBTQ+ si è immediatamente dissociato dal messaggio della foto, e attraverso l’ashtag #notinourname ha rivendicato la volontà della comunità queer mondiale alla pace e al rispetto della vita umana.
Quello che ha scatenato maggiore stupore all’interno della comunità queer, è il fatto che lo stesso soldato sia omosessuale e rivendichi attraverso questo gesto, di combattere per una giusta causa.
“Nonostante il dolore per la guerra, l’ IDF è l’unico esercito in Medio Oriente che difende i valori democratici. È l’unico esercito che da’ l’opportunità a noi gay di essere ciò che siamo”
Parole che vanno ad inserirsi perfettamente nella campagna di rainbow-washing portata avanti da Netanyahu nel corso degli anni, per rafforzare il concetto che la guerra contro Gaza e Hamas non sia altro che una “missione di civiltà”. Insomma, si vuole giustificare il lancio di bombe sui civili anche per liberare le persone queer dalla repressione musulmana. Un’arma pericolosissima, che potrebbe inasprire ulteriormente le leggi a sfavore delle persone lgbtq+ nei paesi arabo-musulmani. Leggi alle quali sono soggette maggiormente le persone del ceto medio-basso. Numerose testimonianze degli attivisti lgbtq+ in Medio Oriente, hanno svelato come l’omossessualità non sia un problema per chi ha denaro e prestigio. Diverso il discorso per le classi più deboli, soggiogate dall’ignoranza e dalle repressioni della religione.
Il rainbow-washing nel conflitto in Medio Oriente
Ma è chiaro che l’apertura al mondo queer sia soltanto un pretesto per ottenere maggior potere socio-economico, utilizzando il ranbow-washing per legittimare un conflitto sanguinoso che ha visto migliaia di civili barbaramente uccisi, e che con la religione c’entra ben poco.
Le guerre e le rappresaglie che hanno caratterizzato il Medio Oriente negli ultimi ottant’anni, fanno parte di un intricatissimo gioco politico che vede coinvolti numerosi paesi occidentali, che parte dalle colonizzazioni dei primi anni ’20 del novecento. Inghilterra e Francia hanno un ruolo nella proliferazione del patriarcato in Medio Oriente. Per sconfiggere l’impero ottomano infatti, hanno promesso ai patriarchi arabi potere e prestigio affinchè li aiutassero nella conquista del paese. Una volta vinta la guerra, la promessa dell’istituzione del grande “Stato Arabo” non è stata mai attuata. Per evitare la rappresaglia, l’occidente ha dato il via ad una rete di corruzione che permette ai ricchi di avere numerosi vantaggi, a patto che le classi più povere restino nella sopraffazione. Di fatto, i mancati diritti delle persone queer all’interno dei paesi musulmani nel Medio Oriente, è frutto di quella corruzione che è diventata eredità culturale per i politici e i ricchi arabi. La religione non c’entra nulla, se non come pretesto per giustificare le brutalità commesse.
Dall’altra parte delle barricate, l’America e i suoi alleati hanno sfruttato il messaggio della “democrazia” per prendersi la sua fetta di torta. Una corruzione anche quella, che passa attraverso messaggi come “guerra di liberazione”, o fa sventolare bandiere arcobaleno sulle macerie e i cadaveri.
Paola Aufiero.
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