Settembre 8, 2024
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Ogni volta che la nazionale italiana di calcio fallisce, si sente ripetere la solita frase: “bisogna ripartire dai giovani”. È un ritornello che, negli ultimi dodici anni, è diventato quasi un mantra, evocato per dare speranza e cercare di voltare pagina. Ma la realtà è che questa frase rischia di diventare un alibi, un modo per evitare di affrontare problemi più profondi e strutturali che affliggono il calcio italiano ossia: bias culturali, ignoranza e arretratezza. Perché nelle nostre nazionali non giocano italiani figli di immigrati? Tra l’altro la maggior parte dei giovani talenti che arricchiscono le nazionali europee, se nati in Italia, non potrebbero giocare nella nostra nazionale a causa delle attuali leggi. Per lo stato, infatti, non sono italiani.

L’ultima debacle agli Europei è solo l’ennesimo capitolo di una serie di insuccessi che hanno segnato la nazionale italiana. Ogni volta, si invocano i giovani come soluzione miracolosa, senza però affrontare le questioni di fondo: i giovani figli di immigrati non giocano nelle nazionali e raramente nei club

Eppure l’atletica italiana avrebbe dovuto insegnarci qualcosa

Sono diventate il volto dell’atletica italiana in men che non si dica. Tutto merito della medaglia d’oro ricevuta alla 18esima edizione ai Giochi del Mediterraneo per essere state le più veloci nella staffetta 4×400: Raphaela Luduko, Maria Benedicta Chigbolu, Libania Grenot e Ayomide Folorunso – questi i nomi delle quattro velociste italiane. La triplista Dariya Derkach è nata in Ucraina a Vinnitsa. Esempi come la pallavolista Paola Egonu, il velocista Marcel Jacobs, Mattia Furlani, figlio dell’Italia e del Senegal, e Chituru Ali, con mamma nigeriana e papà ghanese, ci mostrano l’Italia multiculturale, inclusiva, l’Italia che ci piace eppure in nazionale sono appena due i calciatori figli di immigrati: Michael Folorunsho e Stephan El Shaarawy.

il modello spagnolo: inclusività e multiculturalità

Un esempio virtuoso da seguire potrebbe essere quello della Spagna, che ha saputo sfruttare la crescente multiculturalità della sua popolazione per rinvigorire il proprio calcio. Nel 1995, il numero degli immigrati in Spagna sfiorava il milione, pari al 2,51% della popolazione totale. Tra il 1995 e il 2010, questo numero è aumentato di sei volte, arrivando a circa 6,2 milioni.

La federcalcio spagnola (Rfef) ha monitorato attentamente questa evoluzione. Francis Hernández, coordinatore della cantera della Roja, spiega: “Analizziamo, a seconda di ogni generazione, circa 200 giocatori all’anno. Abbiamo fatto un lavoro molto approfondito per avere un database con nomi e cognomi. Dalla generazione del ’96 a quella del 2010 abbiamo trovato 125 giocatori che potevano giocare con due o più federazioni”. Tra questi 125 ci sono Nico Williams e Lamine Yamal. Il giocatore dell’Athletic avrebbe potuto giocare con il Ghana, come suo fratello Iñaki, e il giocatore del Barcellona con il Marocco. “Di questi 125 giocatori, 107 hanno scelto di giocare per la Spagna. L’85% sceglie noi. Si sono presi cura di loro qui. Si sentono importanti, il che è essenziale per un calciatore”, conclude Hernández.

La mappa demografica della Spagna è in evoluzione, così come la sua selezione calcistica. “Ci troviamo in un momento, rispetto a 15 anni fa, in cui gli immigrati bussano alla porta per avere più rappresentanza. Tuttavia, vediamo che questa rappresentanza esiste più nello sport che in altri settori”, spiega Abdoulaye Fall, membro del gruppo di esperti sulla migrazione della Commissione europea. Il sociologo Sebastian Rinken conclude: “È un ulteriore sintomo del cambiamento demografico in Europa. E poiché il calcio è lo sport con la maggiore accettazione sociale e significato mediatico, questo cambiamento può avere effetti molto positivi”.

Le leggi italiane sulla cittadinanza, la mentalità politica e i bias culturali nel mondo del calcio hanno impedito fino ad oggi un’effettiva inclusività e accoglienza. A differenza di altri sport come l’atletica e la pallavolo, che hanno beneficiato dalla multiculturalità, il calcio italiano è rimasto indietro. Per cambiare realmente le cose, non basta puntare sui giovani: è necessaria una vera e propria rivoluzione che parta dal rinnovamento della classe dirigente della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC). Solo così potremo sperare di tornare ai vertici del calcio mondiale, rispecchiando la ricchezza e la diversità della nostra società.

Cristina Ferrari

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