Aprile 18, 2024
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Il fenomeno del Job Hopping riguarda la tendenza a cambiare lavoro almeno ogni due anni. L’espressione, infatti, indica “saltare” (hopping) da un’occupazione (job) all’altra. I protagonisti di questa tendenza sono persone di età compresa tra i 25 e i 35 anni. Quindi, nello specifico i job hopper sono i Millennials e la Generazione Z. A differenza delle generazioni che li hanno preceduti, i giovani della società contemporanea non ambiscono a restare tutta la vita in un unico luogo di lavoro. 

Il sogno del “posto fisso” cede il posto a nuovi desideri

Nell’attuale scenario lavorativo, i giovani non hanno timore di rinunciare ad un contratto indeterminato. Perché non è quest’ultimo l’unico elemento in grado di garantire loro stabilità e sicurezza. Le nuove generazioni hanno consapevolezze diverse e quindi nuovi desideri. Reclamano maggiore libertà, flessibilità, autonomia imprenditoriale. Chiedono di lavorare in condizioni di benessere e di equilibrio tra vita privata e vita professionale.  

Dunque, cos’è il fenomeno del job hopping? É sintomo di una generazione più consapevole, che sa dire di NO a condizioni che non sono in linea con i propri valori e aspettative. Non è vero che i giovani di oggi sono fannulloni, anzi. Sanno quanto valgono e vogliono che le loro conoscenze e competenze siano valorizzate e riconosciute. A livello formativo, economico, psicologico.

Non fa più paura restare senza lavoro, piuttosto spaventa restare per anni in una stessa organizzazione. Mettersi in gioco, lanciarsi in contesti del tutto nuovi, accettare sfide a cui non si è abituati. Tutto ciò è fucina di motivazione e innovazione.

A determinare le scelte delle nuove generazioni sono anche cause sociali, politiche, etiche. Sanno bene cosa vogliono e sono disposti a continui cambiamenti pur di sentirsi soddisfatti e felici. Non vogliono accontentarsi di una singola esperienza di lavoro. Sono orientati a spostarsi da un contesto all’altro e ad arricchire il loro bagaglio di conoscenza.

Questo consente loro di ampliare la rete di contatti e di avere quindi un ventaglio ampio di scelte e opportunità. Il job hopping, infatti, consente di raggiungere alti livelli di soddisfazione economica e professionale. Di contro, però, ci sono anche degli svantaggi.

Quali sono i limiti del Job Hopping?

Il rischio dei job hopper è quello di costruire una carriera poco solida, discontinua. Inoltre, ci sono aziende che non valutano di buon grado il candidato che cambia spesso contesti organizzativi. 

Questo potrebbe essere un limite culturale da un lato, ma dall’altro un modo per cautelarsi da persone che potrebbero essere poco affidabili e professionali.

Tuttavia, la direzione del vento sta sicuramente cambiando e quindi anche le imprese devono adattarsi a queste trasformazioni. Rispetto al passato, il job hopping non ha più una connotazione negativa. O almeno non soltanto. L’importante è attuare dei processi di selezione in grado di cogliere le reali motivazioni al cambiamento dei candidati. 

Serve gestire con cura e attenzione i colloqui, così da individuare le prospettive, le attitudini personali che possono fare la differenza tra una persona e l’altra

Le organizzazioni possono provare a contrastare il job hopping, cercando di valorizzare i singoli collaboratori. É fondamentale favorire la crescita delle loro competenze e metterli al centro della cultura aziendale. 

Il cambiamento è lecito, però non deve diventare nemmeno una moda, né un capriccio. 

Nella nostra società si fa presto a cambiare lavoro, relazioni, oggetti. Però si è sempre meno capaci di preservare, conservare, custodire. Bisognerebbe trasmettere alle nuove generazioni anche il valore della tradizione. Tradizione in latino significa “trasmettere oltre”, cioè consegnare qualcosa che resta nel tempo e oltre il tempo. Sembra quasi che senza cambiamento le persone si sentano in difetto e quindi in dovere di attuare una trasformazione.

E se cambiare significasse anche riempire di nuovi significati quello che abbiamo, senza necessariamente sostituirlo?

Certo, va da sé che quando non si sta bene, si ha la spinta a voler riorganizzare la propria vita. Ma se questa riorganizzazione nasce da condizionamenti sociali, convenzioni esterne, che senso ha cambiare?

Sembra una continua corsa verso l’insoddisfazione. Un incessante volere che talvolta è la traduzione di un non saper restare. 

É ovvio che quando le condizioni di lavoro non collimano con i nostri valori e desideri, restare sia inutile. Ma se queste condizioni ci sono, forse sarebbe bene riflettere se ne vale davvero la pena. Se quel cambiamento possa davvero giovare alla nostra salute e al nostro benessere.

Se è così, che ben venga “saltare” da un lavoro a un altro. A patto però che il salto sia realmente consapevole e non condizionato da fattori esterni. 

Emanuela Mostrato

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