I recenti episodi di cronaca, l’omicidio di Paderno Dugnano, quello di Terno d’Isola e il duplice infanticidio di Chiara Petrolini, sono la fotografia di delitti che hanno un perché, che hanno un movente. Non esiste raptus che armi una mano e che faccia decidere ad una persona, tutto ad un tratto, di svegliarsi una mattina qualunque e uccidere la famiglia, il proprio figlio o il primo sconosciuto che si incontra per strada. Esistono – eccome – cause da ricondurre ai comportamenti violenti e omicidi di giovani come Riccardo Chiaroni (17 anni) e Moussa Sangare (33 anni). In molti però affermano il contrario, riducendo questi drammatici eventi o ad una società nichilista e/o all’eccessivo utilizzo dei social.
Sono vicende sempre accadute, anche in passato, con la differenza che prima non c’era risonanza mediatica
Addentrarsi nelle specifiche storie familiari sarebbe ingiusto e inopportuno, però si può riflettere su questi accaduti, capire cosa li accomuna e soprattutto avere la consapevolezza che in ognuna di queste tragiche storie ci sia un perché. Seppur nascosto. “La banalità di non trovare un perché” è una cifra del nostro tempo – ha giustamente osservato il giornalista Mauro Magatti sul Corriere della Sera. Di fatto, ci si rifiuta, banalmente, di trovare una spiegazione a certi segnali, probabilmente perché molti adulti sono indifferenti al richiamo dei giovani.
Molti adulti non hanno tempo per ascoltare i giovani, le loro paturnie, i loro malanni. Si commette talvolta l’errore di credere che la dimensione materiale possa bastare a far stare bene i ragazzi. E la dimensione affettiva ed emotiva, in quale strettissimo spazio del proprio (e improcrastinabile) tempo la si colloca? È semplice ricondurre tutto ad attimi di illogica follia, ignorando che i ragazzi che arrivano a compiere gesti atroci e omicidi hanno covato dentro sé tanto malessere, dolore inespresso, acquattato magari dietro comportamenti di gentilezza e apparente “normalità”.
Azioni così crudeli e violente simboleggiano l’incapacità del soggetto nell’accogliere l’alterità, l’Altro, il diverso da sé. Rappresentano il riflesso di un “Io” incapace di gestire qualsiasi tipo di frustrazione e/o difficoltà.
È sciocco credere che nella vita di questi ragazzi, prima che si facessero esecutori di omicidi, fosse tutto rassicurante. Piuttosto, bisognerebbe affermare che i segnali di allarme sono rimasti inascoltati e che le reti sociali e relazionali non hanno colto il grido di aiuto di questi giovani.
A proposito di giovani e dei recenti accadimenti lo psicoterapeuta Paolo Crepet commenta:
“I genitori controllano in tempo reale il registro elettronico dei figli, sanno che voto hanno preso in italiano già alle 10,30 del mattino ma non sanno dove sono alle 3 di notte. Quante volte i padri chiedono ‘come stai?’ al figlio durante la cena? E, se lo fanno, quante volte ascoltano la risposta?».
Il dramma dell’incomunicabilità
Ecco, si pensa di sapere tutto dei propri figli, trascurando che senza coltivare il dialogo e la comunicazione, i fantasmi che un giovane si può portar dentro, faranno fatica a venire fuori se di fronte a sé non gli si para qualcuno pronto ad ascoltarlo e a tenerlo per mano. E quando i nodi dentro la testa non cedono spazio alle parole e al flusso della coscienza, si possono via via commettere orrori. Si verifica così, quello che Pirandello definirebbe “il dramma dell’incomunicabilità”.
Più la disperazione è incomunicabile, più questi ragazzi sentono di non avere nessuna aderenza con il mondo circostante, più la possibilità che possa avvenire un dramma aumenta.
La psicoanalisi insegna che essere figli significa volere la “morte” simbolica del genitore, cioè desiderare di uccidere il padre (complesso di Edipo) in nome di una libertà assoluta. Quando il figlio non riesce a superare questo sentimento di odio e quindi non riesce ad accettare la limitazione del desiderio, non percorre il suo viaggio verso la crescita. Anzi, regredisce.
Secondo Freud, infatti, il superamento del complesso di Edipo è essenziale per la costruzione della personalità in età adulta.
Ma cosa accade nella mente di un giovane assassino che, dopo aver compiuto un delitto, appare inamovibile, senza rimorsi, come se nulla fosse accaduto?
Massimo Recalcati spiega che il giovane criminale vive un genere di angoscia che scaturisce dalla sensazione della inesistenza della Legge.
“È la vertigine che assale il giovane assassino: non esiste un argine, un limite, una barriera, che possa contenere il suo atto.“
Non esiste argine che possa impedire a tanta sofferenza insabbiata di sfociare in gesti estremi. Non si può perciò credere né affermare che questa ferocia e questa violenza non siano mosse da un perché. Si dovrebbe piuttosto agire per migliorare i processi educativi della comunità, delle istituzioni primarie (famiglia, caregiver) e secondarie (gruppi sportivi, religiosi). Bisognerebbe interrogarsi su quanto di buono e di utile si faccia per la propria famiglia, per i propri figli e amici.
Non si può essere giudici delle storie e delle vite degli altri, però ci si può impegnare a essere parte di un processo di umanizzazione sociale.